Tra i diversi articoli interessanti apparsi (stranamente, essendo estate) negli ultimi giorni, uno mi ha colpito per due distinti e diametralmente opposti motivi: il fascino del tema toccato, e la sua profonda ingenuita'.
Il brano e' questo qua (originariamente letto sulle pagine del New York Times), e parla delle tecnologie disponibili e/o in fase di sviluppo per l'analisi semantica dei contenuti sparpagliati sul web e l'estrazione di dati statistici. Il fine utilitaristico di tale procedura sarebbe, in sintesi, valutare se un dato prodotto (o avvenimento, o azienda...) e' recepita benignamente o malignamente dal pubblico, consultando blogs, news, tweets ed altre disparate fonti per trarne l'opinione di fondo e convertirla in un valore numerico facilmente rappresentabile in un grafico.
La bellezza gustosamente intellettuale ed accademica di codesti strumenti di misura dell'umore, calibri per i sentimenti e righelli dell'animo, e' pero' a parer mio esclusivamente intellettuale ed accademica: allo stato dei fatti attuale, hanno una utilita' prossima a zero.
Facciamo un semplice esempio pratico, partendo da un prodotto a caso. Per comodita' e pigrizia prendo un libro recentemente recensito sul blog di una amica, "Quella Stronza del mio Capo" (sicuramente non e' il mio genere...). Ne piglio il titolo e lo cerco su Google Blogs, motore di ricerca della blogosfera; risultato: 21 menzioni, riportate ovviamente in linguaggio naturale, dunque da analizzare rigo per rigo innanzitutto per capire se effettivamente si sta parlando di quell'opera e poi per trarne l'impressione positiva o negativa avuta dall'autore del post. Ricopio il titolo e lo cerco su Anobii, community dedicata a persone che vogliono condividere le proprie letture con altri appassionati (e di cui sono membro); risultato: 50 voti, espressi per mezzo di un semplice form di rating e rappresentati in forma di media (le stelline a fianco della copertina) e tabellare (le lineette che appaiono al paragrafo "Dettagli del libro").
Ora: senza nulla togliere al valore certamente piu' completo e puntuale che puo' avere un post su un blog, val la pena dispiegare fior di risorse computazionali per setacciare l'Internet, individuare e cavare un dato che invece gia' mi viene fornito altrove secondo la modalita' a me piu' confacente (un numeretto) e con un campione di utenza ampio piu' del doppio?
Da una parte, quella dei brillanti ricercatori descritti nell'articolo di apertura, si cerca di far comprendere al computer la complessa ed intricata mente umana - e di conseguenza prima di tutto il linguaggio con cui essa si manifesta - per trarne delle conclusioni stocastiche; dall'altra, quella dell'utenza, si cerca piu' o meno consapevolmente di assecondare il computer, e strumenti semplici di interazione garantiscono una piu' immediata partecipazione e condivisione, nonche' una piu' radicata sicurezza - cliccare su una stellina da 1 a 4 difficilmente puo' portare ad errori grammaticali di cui vergognarsi col prossimo.
Ad oggi, disponendo sulle nostre scrivanie di PC fondamentalmente stupidi in grado solo di immagazzinare e visualizzare valori finiti, le applicazioni (web e non) tendono a delegare all'utente la classificazione del contenuto, vincolandolo a ragionare sullo stesso piano della macchina, appunto secondo valori finiti: da qui l'introduzione di tags da assegnare a documenti e foto, flags da settare per memorizzare l'importanza relativa di un dato, stelline per misurarne l'apprezzamento...
Interessante notare pero' come codesti paletti e restrizioni non siano solo soluzioni temporanee indotte dalla necessita' (in quanto come detto il computer non sarebbe in grado di estrarre tali metadati emozionali da solo e dunque l'utente dovrebbe proprio farne a meno), ma al contrario secondi i canoni moderni sono visti come rivoluzionari, condizionano la psicologia della interazione uomo/macchina e sono considerati naturali per chiunque. Da questa tendenza emerge del resto il discreto successo delle community wiki (in cui ciascuno aggiunge qualcosina in merito al suo argomento preferito), l'enorme successo del microblogging (ove non e' necessario stilare sermoni come i miei per esporre il proprio pensiero, 140 caratteri bastano ed avanzano), il gigantesco successo dei social network (in cui i contenuti una volta immessi rimbalzano da un utente all'altro, essendo condivisi con un semplice click, ed ogni tanto spunta un breve commento), tutte modalita' in cui l'utilizzatore fa poco dicendo tanto - o quantomeno piu' che non facendo nulla...
Qual'e' la conclusione di questa serie di osservazioni? Assolutamente nessuna. La riduzione della complessita' dell'espressione non e' ne' giusta ne' sbagliata, in quanto da una parte diminuisce la varieta' ma dall'altra garantisce un coinvolgimento di piu' persone, e va presa per quella che e': una evoluzione antropologica. Proseguira' fino all'estremo di ridurre l'intera comunicazione umana ad un ininterrotto flusso di emoticons? Si invertira' al raggiungimento di un maggiore grado di coinvolgimento delle future generazioni di utenti, smaniosi di dir la propria in modo approfondito? Se sapessi predire il futuro starei qui a scrivere su un blog anziche' correre a giocare al SuperEnalotto?
Nel frattempo dobbiamo accontentarci di quel che abbiamo, ovvero un computer che conserva numeri. E dentro questi numeri, volenti o nolenti, dobbiamo farci stare tutto: cifre, informazioni, misure. E sentimenti.
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